Iperespressionismo a Macerata. Mostra al Laboratorio 41
L’Iperespressionismo in mostra al Laboratorio 41 di Macerata. Il critico d’arte David Miliozzi ha elaborato il manifesto del movimento iperespressionista, che in epoca social e digitale vuole recuperare le radici dell’espressività, lavorare sulla solitudine umana, ricercare la rottura con il presente.
Il nuovo movimento ha già tenuto un primo appuntamento a Roma e dopo questo di Macerata seguiranno Berlino, Londra e Parigi..
A raffigurare i concetti iperespressionisti, al Laboratorio 41 sono in mostra opere di Fosco Sileoni, Iacopo Maria Fiorani e del videoartista Roman Stezek.
Intervista David Miliozzi, Critico d’Arte (nella foto con Alessandro Leanza, direttore di Laboratorio 41, a sin.)
MANIFESTO IPERESPRESSIONISTA
Ovunque nello spazio e nel tempo, dal paleolitico al postumano, l’uomo è stato, è, e sempre sarà un animale simbolico che attraverso una atavica volontà di trasformare le emozioni in simboli afferma la propria identità, sublimando la propria umanità. Dal reperto di Tan Tan, passando per le grotte di Chauvet e Altamira fino ai giorni nostri, lo tsunami evolutivo non ha scalfito la profonda pulsione dell’essere umano di interrogarsi attraverso un’arte che esprima, o meglio iperesprima i propri stati d’animo e la propria contraddittoria natura. L’iperespressionismo ambisce alla frantumazione di tutte le sovrastrutture sociali e politiche della storia per rimettere al centro l’uomo, le sue pulsioni primigenie, le sue origini, la sua visceralità, la sua umanità. Il simbolo iperspressionista è di forte impatto emotivo, esalta la potenza del gesto espressivo, meditatamente istintivo. L’artista iperespressionista usa voracemente i materiali e le tecniche per la sua ricerca, partendo da una matrice di informalismo esistenziale e privo di pregiudizi legati alla realtà e alla surrealtà, fino a far trapelare indifferenza verso la percezione del mondo esteriore. L’iperespressionismo segue la stella polare dell’originarietà come ritorno alle radici dell’espressività e quindi della propria umanità. In controtendenza rispetto ad un’epoca di dilagante digitalizzazione informatica, di superficiale frammentazione dei rapporti sociali, di fruizione artistica ormai trasformata anch’essa in consumo quotidiano, l’iperespressionismo pone l’accento sull’accresciuta solitudine dell’uomo. Da qui l’infinita e spasmodica ricerca del senso, da ricercare nella capacità dell’arte di suggestionare ancora, nella sua emotiva potenzialità comunicativa, nel gesto sempre simbolico, nel colore crudo, vivo, negli spazi vuoti tra i segni e le parole, nell’ostinata personalizzazione dell’artista e nel suo assoluto bisogno di coinvolgerci. Gli artisti iperespressionistisi pongono tra i propri obiettivi l’abbattimento delle barriere della coscienza che separano la voce interiore dell’artista dall’universo. Tutto è svelato nella totalità dell’epifania creativa. Il vissuto interiore è sempre irrisolto e conflittuale, l’unica possibilità è trascenderlo in materia, simbolo o segno, scandagliare la ricerca di un equilibrismo cromatico di ombre e luce, traît d’union fra conscio e inconscio, normalità e diversità, fisico e metafisico, suggestione e shock. Disvelamento e isolamento urlano a turno le loro ragioni, ora simbiotici, ora antitetici. La radice espressionista germoglia qui in un turbine nuovo, dal carattere fortemente evocativo, “iperbarocco di sentimenti rupestri e clandestini”, un continuo “non detto”, una vibrazione afona e destrutturante che scuote la coscienza. Gli artisti iperespressionisti concepiscono l’ispirazione come respiro neonatale, universale, rivitalizzano gli archetipi attraverso un panteismo iperestetico che celebra la propria autobiografia fino a farla sprofondare negli strati dimenticati della terra; la pulsione psichica viene espressa da gesti tellurici che diventano la registrazione di un momento di vita dell’artista, una sorta di personale diario emotivo. L’opera non nasce da un progetto ma da un processo di improvvisazione spirituale per prove ed errori. Non conta come arrivare alla compiutezza dell’opera, ma il viaggio che intercorre per la sua realizzazione. Un viaggio remoto, solitario, disperato. L’artista iperespressionista vive in modo lacerante il rapporto con l’arte. Cambia il medium che diventa un semplice tramite fra l’emotività dell’artista e l’opera. La continua ricerca del senso, la necessità di doversi reinventare per coglierlo, viene trasposta e materializzata ogni istante nel “momento artistico” che quindi funge da specchio, da alter ego fuoriuscito dalla parte più nascosta e vera di ognuno di noi. Diventano tangibili il dolore e la paura, l’intimo bisogno del confronto con essi, la grande consapevolezza di non poterli fuggire. È il valore simbolico stesso del dolore a donare la conoscenza, solo ciò che si soffre in prima persona, in modo “iperpersonale”, senza accademismi e interpretazioni artificiose e posticce può essere oggetto della mediazione artistica che diventa dunque “iperespressionismo dell’anima”. La voracità nell’utilizzo delle differenti tecniche diviene dunque funzionale al processo di ricerca speleologica che l’artista iperespressionista vuole intraprendere. Una ricerca senza fine. L’arte diventa lo strumento privilegiato per “iperesprimere” la nostra schizofrenica contraddittorietà quotidiana, mettendo al centro l’opera, intesa come reale prolungamento mentale e fisico dell’artista, in un infinito, poetico, struggente transfer autoalimentante. Sintetizzando la matrice espressionista all’esperienza Gutai, fondendo la rivoluzione astratta alle sperimentazioni della body art, esplode così la gestazione iperespressionista e vengono spezzate le catene della mente, si punta decisi ad un’arte che esca dai canoni della codificazione e della catalogazione, un’arte capace di far rivivere la catarsi delle grandi tragedie greche, in cui ogni gesto artistico è unico e irripetibile, in cui la forza spirituale dell’artista si innalza verso una nuova reductio ad Unum.
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